INTRODUZIONE ALLA CURARTE
Eccoci giunti all'ultimo post di questa introduzione. Come si è potuto evincere in ognuno di questi articoli iniziali, una delle caratteristiche principali del processo di CurArte è il fermo superamento di ogni ortodossia precostituita, di ogni pre-concetto di verità, con il conseguente distacco dal metodo scientifico per riconoscere, invece, tutte quelle esperienze di verità che hanno luogo al di là dei confini che esso stabilisce, affinché ogni santa teoria non abbia la meglio sulla concretezza dei fatti.
La teoria principe di CurArte è, dunque, molto semplice: funziona ciò che funziona e non funziona ciò che non funziona.
Si tratta, quindi, di un approccio che non ha verità precostituite ma che cerca continuamente la sua verità attraverso mirate sperimentazioni e feedback condivisi con il soggetto della cura che diventa la sola cartina tornasole del successo dell'intervento.
D’altronde anche l'artista, quando è tale, danza insieme alla sua opera verso un uscio che non gli è dato sapere in partenza, egli partecipa con lo stesso stupore alla rivelarsi dell’opera che va creando.
In questa direzione si attesta, nel processo di CurArte, il rifiuto della diagnosi e la concentrazione sul problema in quanto tale, a prescindere da ogni definizione del problema stesso-definizione che spesso ha la sola funzione di rassicurare, quando l’etichetta non diventa, invece, di per sé, la vera patologia da cui liberarsi.
Nei percorsi di CurArte non ci si chiede mai ”Perché accade?” ma: “Cosa accade? e “Come possiamo fare affinché non accada?”. Ed è domanda a cui entrambi i poli della cura sono chiamati creativamente a rispondere, la sola degna di ogni più scandalosa ricerca.
Infatti, è ugualmente messa in discussione la posizione di potere che rende asimmetrica e disfunzionale la relazione tra chi cura e chi è curato, subordinando al primo il secondo, col falso principio che il sapere del curante sia fondamentale per la cura del curato.
L’approccio di CurArte sposa, invece, il concetto che chi cura è chi è curato compartecipano ugualmente, col loro reciproco sapere, alla definizione del malessere, come alla costruzione dei suoi eventuali rimedi. Insomma, l’opera, qualsiasi essa sia, si costruisce insieme.
È in questo senso da intendere quale icona di CurArte l'opera Fountaine di monsieur Marcel Duchamp che nel 1917 acquista una toilette sul catalogo di una ditta specializzata, la firma, la capovolge e la espone.
Dà vita così ad una profonda rottura epistemologica con la tradizione occidentale: per la prima volta mette una cosa reale laddove da sempre abbiamo assistito a una sua rappresentazione: non il dipinto di un cesto di frutta, o (come in questo caso: di un cesso, poco importa), ma un cesto di frutta vero e proprio. Costringe così il fruitore a chiedersi, a domandarsi, ad andare oltre qualsiasi "mi piace", "non mi piace", "è bello", "è brutto" e a chiedersi, riflessivamente: “che senso ha?”. Costringe, cioè, il fruitore ad entrare nell'opera e a prendersene cura, unico modo per dotarla di senso, svelando -di fatto- quel che da sempre l'arte e la cura rivelano...
Dà vita così ad una profonda rottura epistemologica con la tradizione occidentale: per la prima volta mette una cosa reale laddove da sempre abbiamo assistito a una sua rappresentazione: non il dipinto di un cesto di frutta, o (come in questo caso: di un cesso, poco importa), ma un cesto di frutta vero e proprio. Costringe così il fruitore a chiedersi, a domandarsi, ad andare oltre qualsiasi "mi piace", "non mi piace", "è bello", "è brutto" e a chiedersi, riflessivamente: “che senso ha?”. Costringe, cioè, il fruitore ad entrare nell'opera e a prendersene cura, unico modo per dotarla di senso, svelando -di fatto- quel che da sempre l'arte e la cura rivelano...
...che noi non siamo se non per gli altri, se non nella cura degli altri, e solo nel riflesso creativo degli occhi dell’Altro che ci rivela, scopriamo la possibilità di riflettere su di noi.
Perché solo i riflessi permettono di riflettere, solo la moltiplicazione delle immagini di ciò che non siamo permette di immaginare che, da qualche parte, ci siamo e per davvero e, a partire da quell'immaginazione ogni volta perderci per ritrovarci.